SLOW FOOD: “CONTRO LA SICCITà ESTREMA IN SICILIA NON SERVE IL MANGO MA IL POMODORO SICCAGNO”

"In Sicilia non piove da febbraio-marzo e basta guardarsi intorno per accorgersene. Gli allevatori hanno abbattuto molti animali perché non potevano dargli da bere e ne hanno fatti sopravvivere altri comprando l’acqua dalle autobotti. Chi ha gli ulivi è in ansia perché dopo la straordinaria fioritura primaverile ora i frutti sono così piccoli che l’annata rischia molto. Per non parlare del vino che probabilmente dimezzerà la produzione rispetto alla media. Ma lei pensa che è per questo che si parla di siccità in Sicilia? No: se ne parla perché l’acqua manca in città". Francesco Sottile è un testimone qualificato del disastro idrico in cui sta precipitando la Sicilia. Testimone perché abita a Palermo e racconta che nel suo condominio, come nella maggior parte di quelli del capoluogo siciliano, si va avanti grazie ai contenitori di accumulo dell’acqua installati negli anni ‘90. E qualificato perché è un dirigente di Slow Food Internazionale che insegna Coltivazioni arboree all’università di Palermo.

Quello che legge sulla siccità in Sicilia non lo convince. “Secondo molti commenti sembra che tutto dipenda dalla sfortuna dell’anno o da qualche singolo intervento sbagliato. Non si coglie il punto: questo è un problema globale che ha un nome e un cognome. Si chiama crisi climatica e se non si affronta in modo strutturale tagliando drasticamente le emissioni serra non se ne esce”.

Però curare il clima è una faccenda lunga, e intanto bisogna pur sopravvivere nell’immediato. “Certo, ma per fare le mosse giuste nell’immediato bisogna individuare il problema, non nasconderlo”, continua Sottile. “Non ci si può illudere che basti qualche giorno di temporale per risolvere tutto. Anzi le piogge violente, in crescita a spese di quelle lente e costanti che fanno bene ai campi, sono parte del problema perché erodono il terreno”.

Dunque, visto che si parla di agricoltura e allevamento, il punto è individuare quali sono le mosse giuste da fare in questo campo. C’è chi propone di sostituire le colture siciliane con banane, manghi e papaia: ha senso? “Nessun senso”, risponde Sottile. “Perché è vero che ormai ci sono temperature molto alte, ma manca l’altro elemento essenziale per parlare di colture tropicali: l’acqua. Invece è la difesa della biodiversità che ci può dare una mano: la soluzione sta nella riscoperta della tradizione, nelle specie che chiamiamo ‘siccagne’ proprio perché sono in grado di resistere all’aridità”.

Eppure proprio in questi giorni è arrivata la notizia che anche per i fichi d’India “bastardoni”, tipici frutti siciliani di fine estate, ci si aspetta un meno 30% di produzione: a quanto sembra non tutte le specie tradizionali se la passano bene. “Un momento”, replica Sottile. “Questo non vuol dire che i fichi d’India piantati in un giardino per uso familiare non diano frutti. Vuol dire che se vengono coltivati con l’attesa di una resa economica significativa un calo della produzione derivante dalla pressione climatica dà problemi. Ma bisogna paragonare i danni che un lungo periodo secco può produrre nelle varie ipotesi di coltivazione. Le specie tradizionali che difendiamo nei nostri presidi Slow Food, ad esempio, soffrono ma resistono meglio delle altre alla siccità”.

Gli esempi citati sono vari. Ci sono i pomodori siccagni che l’anno scorso hanno dati frutti con 50 gradi in campo, alcune zucche da aridocoltura, meloni, legumi come i fagioli che migliorano la qualità del terreno perché lo arricchiscono di azoto. E molte varietà di grani tradizionali che rimangono verdi quando le altre si seccano per la mancanza di pioggia.

“Certo, servono anche invasi, cura della rete idrica, interventi puntuali perché non esiste una soluzione unica al problema siccità”, conclude Sottile. “Ma la base di una risposta corretta è partire dal riconoscimento della portata della crisi climatica che abbiamo causato bruciando combustibili fossili e deforestando. E agire a tutto campo in modo coerente e adeguato”.

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